Literatura Española del Siglo XVII

 

POLIFEMO ENAMORADO Y FEROZ

Giambattista Marino (1569-1625): L'Adone (1623): 5123 octavas y 40.984 versos.

Canto XIX (109 octavas y 872)

125.
— Ne’ vostri casi (o Dei) non vi consolo, [habla Ceres]
ché di pianto son degni, e di cordoglio;
ma chi langue d’Amor non è mai solo,
anch’io d’Iasio rammentar mi soglio.
Taccio quanto soffersi affanno e duolo,
ché l’antiche follie narrar non voglio.
Narrerò d’un Garzon tragedia tale
ch’io piansi piú l’altrui, che ’l proprio male.

126.
Né trovar si poria chi farne fede
meglio di me, che ’l vidi, unqua potesse,
perch’ove bagna a la mia reggia il piede
l’onda di Scilla, il caso empio successe.
Videlo ancor costei, che tra noi siede,
e ’l vider seco le sue Ninfe istesse,
e v’accorse pietosa, e se ne dolse,
e tra le braccia il misero raccolse.

127.
Aci il gentile, un Pastorei Sicano,
fu giá di Galathea l’unico foco,
Galathea bella, che seguita invano
era da Polifemo in ogni loco.
Appo lui quasi stilla a l’Oceano
era ogni altra bellezza o nulla, o poco.
Onde ciascuna Ninfa empiea d’amore,
e ciascun uom d’invidia e di stupore.

128.
Cedano i duo che qui lodati han tanto
di Semele il figliuolo e di Latona,
o qual maggior beltá celebra il canto
de le dotte sorelle in Helicona.
Il suo puro candor toglieva il vanto
a le bianche Colombe di Dodona.
Il suo dolce rossor faceva oltraggio
ai color de l’Aurora, ai fior di Maggio.

129.
Una collina, che risponde al mare,
Vertunno con Netunno accoppia e mesce.
Per entro Tonde sue tranquille e chiare,
publico albergo al maldifeso pesce,
un pavimento lucido traspare,
lo qual vaghezza al vago sito accresce,
di nicchi fini e di lapilli tersi,
tutti smaltati di color diversi.

130.
Lá ’ve da l’erba tremula indistinto,
agitato dal flutto, il giunco pende,
di vario musco il margine dipinto
molle di fresca arena un letto stende,
si d’alti sassi incoronato e cinto
che soffio d’Aquilon mai non l’offende.
Sol placid’aura intorno al curvo grembo
gl’increspa Torlo, e gl’innargenta il lembo.

131.
Tinta d’azurro ne le ripe estreme
par la verdura, e l’acqua è verdeggiante.
Ragionar ponno, e salutarsi insieme
il cultor, quinci e quindi, e ’l navigante.
Mentre l’un rade il lido, e l’altro il preme,
han communi tra lor Taighe e le piante.
L’un può col remo còr l’uve dal tralce,
l’altro i coralli mieter con la falce.

132.
Qui solea Galathea, lasciando il ballo
de l’altre Ninfe e de le Dee marine,
dal tergo d’un leggier Pescecavallo
su l’asciutto smontar del bel confine.
Ed Aci de le membra di cristallo,
molli di perle, ed umide di brine,
con mille caldi sospiretti e mille
gli rasciugava le cadenti stille.

133.
Un giorno uscita pur (come sofia)
a scherzar per le liquide campagne,
venne il suo amor per la cerulea via
separata a trovar da le compagne,
e discesa ove fa l’isola mia
un promontorio sol di tre montagne,
senza sospetto alcun d’insidia altrui
stavasi sola a trattener con lui.

134.
Di duo pendenti d’indici zaffiri
gli avea guernito il destro orecchio e ’l manco,
e circondato con minuti giri
di tre linee di perle il collo bianco.
Teneagli con sorrisi e con sospiri
l’una mano a la guancia, e l’altra al fianco,
e dolce a sé stringendolo, nutriva
dentro il gelido sen la fiamma viva.

135.
E baciandol dicea: «Chi fia che sciolga
giá mai questo (o mio ben) caro legame?
Pria che si rompa, o ch’altri a me ti tolga,
vo’ che si rompa il mio perpetuo stame.
Frema, scoppi (se sa) s’adiri e dolga
il terror di Sicilia, il mostro inlame,
di cui piú fiera e spaventosa belva
non vive in tana, e non alberga in selva».

136.
Fatto qui pausa ai vezzi, e se non tronche,
lentate le dolcissime catene,
segnavan con le pietre e con le conche
de le gioie la somma, e de le pene.
Su lo scoglio scolpian per le spelonche,
per la riva scrivean sovra l’arene,
suggellando i caratteri co’ baci,
Aci di Galathea, Galathea d’Aci.

137.
Or mentre incauti e senz’alcun pensiero
stanno in tal guisa a trastullarsi i due,
ecco viene il Ciclopo orrido e fiero
a pascolar le pecorelle sue.
Sotto la manca ascella un cuoio intero
per zanio tien di ricucito bue.
Ben si scorge il crudel, quand’egli giunge,
isoleggiar su l’isola da lunge.

138.
Non di lieve siringa o di sambuca,
ma di massicci abeti ha cento canne,
cento buche ogni canna, ed ogni buca,
misurato il suo giro, è cento spanne.
Questa suol, quand’avien ch’ei riconduca
la greggia a l’erba fuor, porsi a le zanne
ed accordar con cento fiati e cento
de’ diseguali calami il concento.

139.
«Ti reco, o Galathea, da quelle rupi
due pargolette e leggiadrette Damme,
pur che gli ardor ti piaccia interni e cupi
alquanto mitigar de le mie fiamme.
A te le dono, e le sottrassi ai Lupi,
che le toglieano a le materne mamme.
Ma te Lupa crudel non fia ch’io scolpi,
ch’assai peggio il mio cor divori e spolpi.

140.
Non mi sprezzar, perch’io di questa roccia
abiti l’aspra e ruvida latebra,
né perché ’l lume mio, ch’a goccia a goccia
per te si stilla, appanni una palpebra.
Non mi schernir, né far che sí mi noccia
l’orgoglio, onde ten vai tumida ed ebra.
S’io sempre a’ tuoi m’inchino e m’inginocchio,
aborrir tu non devi il mio grand’occhio.

141.
Ben ch’abbia un occhio solo, io non son orbo,
il mio sguardo è di Lince, e non di Talpe,
ben ti scoprí l’altr’ier presso quel sorbo
il busto mio, ch’avanza Olimpo e Calpe,
col fanciul, ch’io farò pasto del corbo,
ad onta mia scherzar sotto quest’alpe.
Ma s’altra volta il colgo, il mal fia doppio:
io ten farò sentir tosto lo scoppio».

142.
Cosí cantava, e volea piú dir forse
col guardo sempre intento a la marina,
quand’egli a caso invèr la falda il torse
che terminava la gran balza alpina,
e de la coppia misera s’accorse,
la qual non prevedea tanta ruina
e d’amor tutta cieca e tutta ardente
al periglio vicin non ponea mente.

143.
«Ah che ben ti vegg’io»> colmo d’orgoglio,
«non luggir, Galathea» disse il Gigante.
«Ti veggio, e la vendetta omai non voglio
piú differir di tante ingiurie e tante;
e vendicar mi vo’ con questo scoglio,
ch’è del tuo duro cor vero sembiante,
e la luce per te non troppo allegra
segnar di questo dí con pietra negra».

144.
Detto e fatto in un punto, ecco un fracasso,
ond’intorno il ciel freme, e ’l mar rimbomba,
e d’alto in un precipitato a basso
mezo il gran monte impetuoso piomba.
Sovra il miser Garzon ruina il sasso,
e gli porta in un punto e morte e tomba.
Sotto la rupe, che T percote e pesta,
fulminato e sepolto insieme resta.

145.
Io non so qual affetto a l’improviso
piú nel cor de la Ninfa allor s’avanzi,
l’ira contro il fellon, ch’abbia reciso
il bel nodo ch’Amor strinse pur dianzi,
o la pietá del Giovinetto ucciso,
lo qual sí bello ancor le giace innanzi
che non con altri forse atti e pallori
(se potesser morir) morrian gli Amori.

146.
«Dunque per te» prorompe alftn gridando
«il fior d’ogni mio ben langue distrutto,
perfido Lestrigon, Mostro essecrando,
portento di Natura immondo e brutto?
Cosí grazia e mercé s’impetra amando?
Cosí s’ottien de le fatiche il frutto?
Non credo no, né fia mai ver, eh’un core
rozo e villano ingentilisca Amore.

147.
Ma che? Ben pagherai d’un tanto torto
la pena in breve, di quel lume privo
che quel terreno Sol, ch’oggi m’hai morto,
indegno fu di rimirar giá vivo.
Ben che ’l tuo sdegno insano e poco accorto
util gli fu, per essergli nocivo:
d’uccider ti credesti Acide mio,
e t’avedrai che d’uom l’hai fatto Dio».

148.
Sí dice, indi quel corpo amato e bello,
ch’incapace è di vita, e di salute,
trasforma in chiaro e limpido ruscello
con la divina sua fatai virtute;

e poi c’ha del gentil fiume novello
con le lagrime sue Tacque accresciute,
il salso in un col dolce umor confonde
e rimescola insieme onde con onde.

149.
Udiste, o Dei, del fiero il crudo sdegno,
non giá quanto a seguir n’ebbe dapoi.
Io ’l so, che ’l vidi, e parmi ancor ben degno
da ricordarsi e raccontarsi a voi.
Io ’l vidi, e ’l so, però che ’l vago ingegno
intento ad osservar negli atti suoi
ciò che disse, e che fe’, ciò che gli avenne,
piú salda impression mai non ritenne.

150.
Cosí vedrete alfin, che pur il colse
la bestemmia fatai di Galathea:
onde quant’egli errò, tanto si dolse,
perdendo il Sol, la forma, e la sua Dea.
La giusta legge del destin non vòlse
ch’impunitá n’andasse
opra sí rea.
Sovente vendicar le cose belle
(come simili a lor) soglion le stelle.

151.
Quando del colpo iniquo ed inumano
gonfiando insuperbito i suoi furori,
d’aver morto il rivai di propria mano
vantava seco i trionfali onori
e credea follemente il mostro insano
de la Ninfa gentil goder gli amori,
permise il Ciel che di lontan venisse
ad ingannarlo, ad acciecarlo Ulisse.